lunedì 7 febbraio 2011

Urbanistica&Paesaggio


L’ASSALTO DEI CEMENTIFICATORI ALLE NORME COSTITUZIONALI

Intervista a Salvatore Settis di Costantino Cossu, da La Nuova Sardegna

«Vedere il bene comune come fondamento della democrazia, della libertà e dell’eguaglianza, rivendicare il pubblico interesse, cioè i diritti delle generazioni future». Così Salvatore Settis nel suo ultimo libro «Paesaggio, Costituzione, cemento» (Einaudi). Archeologo e storico dell’arte, già direttore del Getty Research di Los Angeles e della Normale di Pisa, titolare a Madrid della «Càtreda del Prado», Settis ha scritto un manifesto denuncia (vedi la recensione qui sotto) delle condizioni disastrose in cui versa in Italia il paesaggio. Un atto di accusa, lucido e documentatissimo, contro «l’inerzia di troppi politici (di maggioranza e di “opposizione”») e un appello all’«azione popolare» per fermare la devastazione.

In Italia la protezione del paesaggio è scritta nella Costituzione e, a partire dalla legge Galasso, sono molte le buone norme di tutela. Perché allora si distrugge tanto?

«E’ il tema principale del mio libro. La spiegazione del paradosso che lei rileva sta da un lato in un eccesso di legislazione (che spesso si traduce in incertezza e in arbitrio) e dall’altro nel contrasto tra legislazione nazionale e legislazione regionale. Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, ho dedicato un capitolo intero al tentativo di dimostrare che l’articolo 9 della Costituzione, quello che prescrive la tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della nazione, è nato dall’esigenza che con preveggenza chi ha scritto la Carta avvertiva di contrastare un eccesso di autonomia dei poteri locali in una materia in cui gli interessi particolari hanno sempre premuto in maniera fortissima. Concetto Marchesi, uno dei padri della Costituzione, parlava in proposito di una possibile e pericolosa «raffica regionalistica» contro le norme nazionali di tutela. Raffica che, soprattutto a partire dagli anni Settanta, quando le Regioni sono diventate una realtà istituzionale, puntualmente s’è scatenata. Il territorio, il paesaggio, l’ambiente, sono diventati terreno di battaglia tra Stato e Regioni, un contrasto tra poteri pubblici che ha aperto interstizi e zone grigie, un varco attraverso il quale è passata la devastazione».

Lei contesta che l’ossessione edilizia abbia ragioni economiche fondate. Perché?

«In Italia il tasso di crescita demografica è bassissimo, eppure siamo il Paese europeo che ha il maggior consumo di territorio: vengono quindi costruite abitazioni che non servono a nessuno. Abbiamo dovuto assistere all’indegna commedia del Piano casa. A livello nazionale la proposta lanciata da Berlusconi nel 2009, in campagna elettorale, non s’è mai tradotta in una legge e però le Regioni sono state istigate a farli i loro piani casa, tutti illegittimi. Si cerca di far passare l’idea che l’unico modo per rimettere in moto l’economia sia rilanciare l’edilizia. E invece è l’opposto che occorrerebbe fare. La crisi mondiale è stata scatenata dalla bolla immobiliare negli Usa. E si sono visti Paesi, ad esempio l’Irlanda, dove s’è costruito sino al quintuplo di ciò di cui c’era bisogno senza che questo evitasse addirittura la bancarotta dell’intero sistema economico nazionale. Non è vero che investire nel mattone è l’unico modo per rilanciare l’economia. Al contrario: investire capitali nell’edilizia vuol dire bruciare flussi finanziari che invece potrebbero essere impiegati molto più produttivamente in altri settori».

Perché in Italia la cultura di tutela del paesaggio è più debole che in altri Paesi europei?

«In realtà noi abbiamo una tradizione importante di studi e di legislazione. In questo momento l’idea del bene comune appare sconfitta dall’idea del privilegio di chi ha i soldi, di chi ha le proprietà, di chi vuole devastare per proprio esclusivo profitto. Crescono però i segnali di una presa di coscienza. Nascono associazioni di cittadini che si oppongono alla tendenza dominante. A San Benedetto del Tronto, ad esempio, per combattere una lottizzazione che avrebbe rovinato un paesaggio unico, un gruppo di cittadini ha raccolto 4 mila firme e ha ottenuto un referendum comunale che probabilmente sarà vinto».

Perché in Italia non esistono movimenti ambientalisti capaci di pesare sulle scelte politiche nazionali come quello di Cohn-Bendit in Francia e dei Grünen in Germania?

«Da noi la crisi della politica dopo Tangentopoli è stata segnata dall’estinzione di grandi partiti di massa che avevano una tradizione anche di idee: la Dc, il Pci, il Psi. Partiti sostituiti da forze politiche che sono tutte, senza eccezione, prevalentemente organizzazioni di raccolta del consenso in termini elettorali, molto di rado laboratori di idee. Questo ha impedito ai movimenti di avere una solida sponda politica e quindi un’incisività anche istituzionale».

(23 gennaio 2011)

da Micromega

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